Dopo il post dedicato all'articolo del BMJ di maggio, dal
titolo " Let the patient revolution begin" (Che la rivoluzione del paziente abbia inizio), trovo nel blog "Saluteinternazionale.info" un articolo
interessante di Gavino Maciocco, che copio e incollo, dal titolo: "The
patient revolution", inserito da Redazione SI il 24 giugno 2013.
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Gavino Maciocco è
docente di Politica sanitaria presso il Dipartimento di Sanità Pubblica
dell’Università di Firenze, è promotore e coordinatore del sito web
Saluteinternazionale.info. E’ direttore della rivista quadrimestrale Salute e
Sviluppo (dell’ong Medici con l’Africa, Cuamm) e membro del Comitato
Scientifico della rivista Prospettive Sociali e Sanitarie. Esperto di politiche
sanitarie e salute globale, ha volto varie attività nel campo medico, dal chirurgo
al medico di famiglia, dal dirigente di ASL fino alla attuale posizione di
docente universitario. È autore e coautore di numerose pubblicazioni, tra cui:
Politica, salute e sistemi sanitari, Le sfide della sanità americana (Pensiero
Scientifico), Igiene e Sanità Pubblica, Manuale per le Professioni Sanitarie,
nuova edizione nel 2011 (Carocci Faber).
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Ecco l'articolo. "Tradurre nella pratica quotidiana dei
servizi sanitari concetti come Patient-centered care, Patient
empowerment, Expert patient non è semplice perché richiede un cambiamento
di paradigma rispetto al modo in cui la medicina è tradizionalmente praticata e
i cambiamenti di paradigma trovano sempre una resistenza sia negli operatori
sanitari che negli stessi pazienti. Ma la strada è aperta ed è impossibile
tornare indietro.
La rivoluzione prende le mosse da un seminario di 5
cinque giorni tenutosi nel 1998 a Salzburg (Austria) dal titolo “Through the
Patient’s Eyes” (Attraverso gli occhi del paziente). 64 partecipanti provenienti da 29 paesi (dagli USA alla
Cina, dal Sudafrica alla Romania) e espressione di mondi diversissimi:
operatori sanitari, giornalisti, attivisti di diritti umani, accademici,
insegnanti, gruppi di auto-aiuto, filantropi, artisti, esperti di
diritto, autori di romanzi. Nel 2001 esce un paper che riassume le posizioni
emerse da quello storico incontro. Una filosofia disegnata con le poche ma
sferzanti parole del titolo: “Healthcare in a land called PeoplePower: nothing
about me without me”[1].
(Vedi Risorse).
Nella mitica terra chiamata PeoplePower,
l’assistenza è interamente condivisa con i pazienti perché “niente che mi
riguarda può essere fatto senza di me”. Dall’uso delle informazioni
personali alla definizione della qualità dei servizi. A questo riguardo
pazienti e clinici sviluppano “contratti di qualità” individuali che
servono come base per sistemi che misurano la qualità e il miglioramento dei
servizi, riflettendo informazioni individuali condivise da medici e pazienti. I
pazienti quindi forniscono a banche dati nazionali informazioni di processo e
di esito per alimentare ricerche epidemiologiche e sistemi di
miglioramento della qualità evidence-based. Ma nella terra chiamata PeoplePower
avvengono anche altre cose mirabolanti: i medici di famiglia non sono “Gatekeepers”
(Guardiani del cancello), ma “Gateopeners”, coloro cioè che
il cancello delle cure lo aprono, individuando percorsi assistenziali
condivisi, sulla base dei bisogni e delle preferenze dei pazienti.
Il più noto e illustre interprete dell’approccio “Patient-Centered”
è stato Donald M. Berwick, autodefinitosi da questo punto di vista un
“estremista”[2].
Tra le Risorse abbiamo allegato il
racconto di una sua storia, tanto intima quanto politica, emozionante e
commovente[3].
Sono figli di questa riflessione originaria altri
concetti, quasi identici, che si sono successivamente affermati: quelli di “Patient
empowerment” (made in USA) e di “Expert patient” (made in UK),
principalmente applicati alla gestione delle malattie croniche.
Un’osservazione spesso fatta da medici, infermieri e
altri operatori sanitari che seguono per lungo tempo pazienti con malattie
croniche come diabete mellito, artrite o epilessia è “il mio paziente conosce
la sua malattia meglio di me”. La conoscenza e l’esperienza fatta dai pazienti
sulla loro malattia è una risorsa troppo a lungo non sfruttata. È qualcosa
che potrebbe essere di grande beneficio per la qualità dell’assistenza ai
pazienti e in definitiva per la loro qualità della vita, ma che è stata troppo
ignorata nel passato. (da “Expert Patient”, 2001[4]).
Molto più di recente sul BMJ
si legge: L’unica possibilità di migliorare l’assistenza sanitaria
è rappresentata da una partnership tra clinici e pazienti, perché questi
ultimi, meglio dei clinici, comprendono la realtà delle loro condizioni,
l’impatto che la malattia e il suo trattamento hanno sulla loro vita e come i
servizi potrebbero essere meglio progettati per aiutarli [5].
Kate Lorig, della Stanford University, ha avuto il
merito di elaborare, sperimentare (valutandone l’efficacia) e di diffondere in
mezzo mondo uno strumento per lo sviluppo dell’empowerment del paziente,
“un processo che aiuta le persone ad acquisire controllo, attraverso
l’iniziativa, la risoluzione di problemi, l’assunzione di decisioni, che può
essere applicato in vari contesti nell’assistenza sanitaria e sociale”[6].
Il suo programma per l’autogestione delle Malattie
Croniche (Chronic Disease Self Management Program o CDSMP) si basa
sull’assunzione che la maggior parte dei problemi che i malati cronici devono
affrontare sono simili, indipendentemente dalla patologia da cui sono affetti.
“L’autogestione aiuta i pazienti a mantenere la salute nella loro prospettiva
psicologica. Questo si ottiene concentrandosi su tre compiti […]: il primo
riguarda la gestione medica, […] il secondo riguarda il miglioramento o il
cambiamento di comportamenti[…] L’ultimo compito richiede di gestire le sequele
emozionali legate alla malattia cronica[…]”. Vedi post Nothing about me without me .
Tradurre nella pratica quotidiana dei servizi sanitari
concetti come Patient-centered care, Patient empowerment, Expert
patient non è semplice perché richiede un cambiamento di paradigma
rispetto al modo in cui la medicina è tradizionalmente praticata (Tabella 1)
e i cambiamenti di paradigma trovano sempre una resistenza sia negli operatori
sanitari sia negli stessi pazienti.
Tabella 1. Cambiamento di paradigma: dalla sanità di attesa alla
sanità d’iniziativa.
Sanità d’attesa
|
Sanità d’iniziativa
|
Centrata sulla malattia
|
Centrata sulla persona
|
Basata sull’ospedale e sulle attività specialistiche
|
Basata sulle cure primarie
|
Focus sugli individui
|
Focus sui bisogni della comunità
|
Reattiva, guidata dai sintomi
|
Proattiva, pianificata
|
Focalizzata sulla terapia
|
Focalizzata sulla prevenzione
|
Fonte:
Pan American Health Organization, Innovative care for chronic conditions, WHO,
2013
Tuttavia la strada è aperta. Il Chronic Care Model ha
dimostrato di essere un modello di cura altamente efficace nella gestione e nel
controllo delle malattie croniche[7].
Un modello che fa delle risorse della comunità e dell’empowerment dei pazienti
i punti centrali della sua azione (vedi anche Assistere le persone con condizioni croniche). Un modello
ormai ampiamente diffuso e sperimentato, come dimostra un recentissimo
documento della Pan American Health Organization (vedi l’articolo).
I due post che alleghiamo a questa Newsletter ci aiutano
a capire la portata del cambiamento necessario, anche in termini di
sostenibilità del sistema sanitario.
1.
Il post di Vernero indica che la
partecipazione dei pazienti e dei cittadini alle scelte in campo medico non
significa – non può e non deve significare – un aumento incontrollato dei
consumi, bensì una
strada per scegliere più saggiamente (
Choosing
Wisely), perché
Fare
di più non significa fare meglio.
2.
Il post di Perria, commentando un fondamentale articolo di
Barbara Starfield
, segnala che la multimorbosità è un fenomeno in aumento,
così come in aumento è il ricorso alle cure specialistiche e, conseguentemente,
i costi ad esse collegati. Le cure specialistiche sono per definizione esposte
al rischio di inappropriatezza per frammentazione dei percorsi dovuta ai
diversi specialisti che spesso sono coinvolti, inclusa la duplicazione di esami
e procedure in relazione ai pareri clinici, spesso non coincidenti, a volte
addirittura contrastanti. Potenziare le cure primarie significa garantire
adeguati livelli di assistenza e una sostanziale continuità delle cure, secondo
logiche di spesa che comportano costi sostenibili, di gran lunga inferiori a
quelli che sarebbero necessari se ciascun disturbo fosse trattato dal singolo
esperto.
Mettere al centro il paziente più che la malattia
favorisce anche il rispetto all’equità, perché mira a valutare, e
potenzialmente a soddisfare, l’effettivo bisogno che scaturisce dallo stato
complessivo di malattia che caratterizza quel determinato paziente, con il suo
profilo umano e sociale.
Risorse
1.
Delbanco
T, Berwick DM, Boufford JI, et al. Healthcare in a land called PeoplePower:
nothing about me without me. Health Expect 2001;4(3):144-50.
2.
Donald
M. Berwick What ‘Patient-Centered’ Should Mean: Confessions Of An Extremist
Health Affairs, 28, no.4 (2009):w555-w565
3.
Donald
M. Berwick. Escape Fire. Lessons for the future of health care. Commonwealth
Fund, 2002.
4.
Department
of Health. The Expert Patient: A New Approach to Chronic Disease Management for
the 21st Century, London, Stationery Office, 2001
6.
People
with chronic disease should be encouraged to manage their care. BMJ
2012;344:e2771 doi: 10.1136/bmj.e2771
7.
Ham
C. The ten characteristics of the high-performing chronic care system. Health
Econ Policy Law 2010; 5(Pt 1):71-90.