Dire alla moglie, in via di separazione, "ti ammazzo" fa scattare il
reato di minaccia anche se non c'è l'intenzione di passare ai fatti. La Corte di Cassazione con la sentenza 46542
conferma la condanna inflitta dal giudice di pace al ricorrente,
accusato dalla moglie di percosse e minacce gravi. Alla base della
condanna, oltre alle lesioni certificate, un "ti ammazzo" rivolto alla
signora nel corso di un litigio.
Valida la testimonianza della donna anche se parte civile -
Inutilmente l'uomo si era lamentato del fatto che i giudici avessero
preso per buona la testimonianza della sua ex che si era costituita
parte civile contro di lui quando erano in fase di separazione e dunque
in "conflitto di interesse". La Corte di cassazione coglie l'occasione
per ricordare che le dichiarazioni della persona offesa, che si
costituisce parte nel processo, sono escluse soltanto nel rito civile
mentre sono ammesse in quello penale. Il processo penale ha, infatti, lo
scopo di accertare la colpevolezza dell'imputato, un interesse
pubblicistico che non può cedere il passo o essere condizionato da
interessi privati, come il risarcimento.
Il valore assoluto della minaccia - Valore assoluto anche per
l'espressione "ti ammazzo", da considerare comunque reato se in grado di
suscitare timore nel destinatario. La reazione dell'uomo e della donna
comune è quella di sentirsi limitati nella propria libertà di fronte
alla minaccia di una morte violenta, ed è irrilevante la "concretezza"
della limitazione. Inutile, anche in questo caso, il tentativo del
marito di difendersi dicendo che la moglie ricorreva a insulti di pari
volgarità e che molto spaventata non doveva essere se aveva aspettato
dieci giorni a denunciare la minaccia ed era rimasta, per le settimane
successive, sotto il suo stesso tetto.
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